“L’incontro terapeutico”, tema centrale della Psicologia Umanistica e precedentemente di quella esistenziale, implica l’adesione empatica a ciò che il cliente esperimenta, l’attenzione a qualsiasi tipo di comunicazione venga dal cliente, cioè a quella complessa rete di messaggi – tono della voce, gestualità, distanza – che va sotto il nome di “linguaggio del corpo”: il corpo come “base originaria dell’esistere nel mondo” diventa un aspetto privilegiato delle tecniche che si muovono nell’ottica della Psicologia Umanistica.
L’accento posto sull’aspetto esistenziale e fenomenologico nella pratica terapeutica non deve portare a sottovalutare l’importanza del razionale e del mentale e quindi dell’apprendimento di metodologie fondamentali nel setting terapeutico.
La Psicologia Umanistica non è una metodologia né una tecnica di lavoro ma piuttosto una “concezione e un progetto di uomo” da cui deriva una qualità particolare nell’affrontare le cose umane.
Tutto ciò non significa che essa sia in contraddizione con la psicologia scientifica. Entrambi i punti di vista sono fondamentali per una concezione integrata dell’uomo.
Se è vero che la cultura occidentale ci ha condotto a sviluppare le nostra razionalità a danno della nostra emotività, sviluppare quest’ultima a danno della prima sarebbe oltremodo negativo in quanto riproporrebbe una disarmonia all’interno della persona.
Di qui va ribadita la necessità di una concezione della persona – fondamentale anche per la formazione del terapeuta – che tenga conto insieme degli aspetti razionali, emotivi, mentali e corporei, nonché di quegli aspetti della personalità, così cari alla Psicologia Umanistica, cioè la creatività e il transpersonale, aspetti che fanno dell’uomo un essere in grado di sviluppare la propria potenzialità, di autorealizzarsi e autoprogettarsi.
La concezione integrata della persona come unità bio-psico-spirituale cambia il senso della psicoterapia
– da recupero ed eliminazione del sintomo e del disagio mentale
– ad occasione e momento di crescita personale.
In questa ottica il sintomo, in una selva di condizionamenti e azioni repressive da parte del sociale, diventa l’espressione più vera e autentica di una esistenza sofferente che lancia un appello, un messaggio per approdare a un nuovo assetto della propria personalità e ad una organizzazione più umana della propria esistenza.
Da questo cambiamento di ottica emerge una figura diversa, di “terapeuta filosofo”, non soltanto tecnico riparatore di una disfunzione, ma facilitatore di uno stile di vita più vero.
Lo psicologo umanista va visto, seguendo una bella metafora di Rollo May, allo stesso modo di Filottete, come il “guaritore ferito” che grazie alla consapevolezza della sua ferita diventa guida e compagno di viaggio di quanti si avventurano sulla strada tortuosa della ricerca di sé.
Lo Psicologo umanista non fornisce ricette, non offre soluzioni e, soprattutto, non usa solo il suo intelletto per aiutare la persona che si trova di fronte. Partecipa e si coinvolge. Entra in risonanza con l’altro, stabilisce un rapporto umano: ormai sono numerosi gli studi che confermano che, al di là delle metodologie o tecniche, è il rapporto corretto e sincero con una persona in grado di offrire un aiuto competente ad essere determinante.
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